Una storia d’amore

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Nella zona del sud della Francia in cui sono nata non di rado si sentiva la lingua italiana. Molte erano le persone con nomi o cognomi italiani, al mercato si scambiavano ricette della cucina del Bel Paese. Malgrado ciò quando è arrivato il momento di scegliere una seconda lingua straniera da studiare a scuola non mi è nemmeno passato per la mente di imparare l’italiano – sarà che non mi sembrava molto « straniero »… Ho iniziato allora lo studio di una lingua assai diversa dalla mia, che mi ha portato lontano dal mio paese, una lingua difficile ma affascinante, che mi ha consentito di scoprire una cultura molta diversa dalla mia e una storia travagliata, con degli strascichi che ancora oggi sconvolgono il mondo.


Ero già cinquantenne quando iniziò quella storia d’amore. Me lo ricordo come fosse ieri: con mio marito stavamo visitando il Palazzo Ducale di Venezia, cercando di capirne la storia. In tutte le stanze c’erano dei cartelli con tutte le informazioni di cui avevamo bisogno – in italiano e in inglese. Il nostro inglese era, e lo è ancora, piuttosto basico, e non ci consentiva di destreggiarci nelle numerose peripezie della storia del palazzo. Di leggere in italiano non se ne parlava – se mi divertivo durante il viaggio a indovinare il significato delle parole che sentivo o che vedevo scritte, capire la storia del palazzo era tutt’altra cosa. M’incuriosiva questa lingua – mi ricordo che una volta sul traghetto una signora usava una forma che non riuscivo ad afferrare – ho capito dopo che usava verbi al condizionale, la cui formazione non somiglia per niente al condizionale francese. Tutti quei “potrebbe, farebbe, avrebbe” avevano un je ne sais quoi di esotico…


Tornata in Francia, ho cercato un corso d’italiano per adulti principianti. Mio marito ha accettato di frequentare le lezioni anche lui, e ha condiviso con me l’interesse e la curiosità per l’italiano. Così è iniziata una storia d’amore con l’Italia che sarebbe durata più di vent’anni, regalandomi la scoperta di una lingua straordinariamente ricca, di una cultura che mi avrebbe incantato, di paesaggi stupendi… senza dimenticare le persone incontrate con cui ho avuto la possibilità di comunicare senza l’ostacolo
della barriera linguistica e che ho sentito vicine come se fossimo dello stesso paese. Nel corso della nostra quarantina di viaggi in Italia abbiamo girato quasi tutto il paese, messo il piede in quasi tutte le regioni (ci mancano Molise e Marche) – pur essendo consapevoli che abbiamo visto soltanto una parte del paese, e che ci vorrebbero più vite per visitare tutto. Tra le regione in cui siamo andati più volte : Sicilia, Sardegna, Puglia, Emilia Romagna, Lombardia, Campania… Tra i posti più amati : l’Etna,
Castel del Monte (il Castello di Federico II) , la Sicilia barocca, le Dolomiti (con gli amici botanici – quante scoperte, e non solo di piante…), i paesaggi della Sardegna, i luoghi manzoniani del lago di Como, una gita in Basilicata sulle orme di Carlo Levi, il Cretto di Burri a Gibellina Vecchia, le giornate trascorse a Reggio nella bella casa di Maria-Grazia, l’ultima viaggio in Calabria alla scoperta della Sila…


Studiare l’italiano per una persona come me appassionata di lingue , della loro storia, delle loro infinite sfumature e possibilità espressive, è stato una bella avventura, un bellissimo viaggio. Tuttavia arriva un momento in cui studiare, esprimersi in una lingua straniera quando non si ha la possibilità di praticarla, diventa pesante.


Tutte le storie hanno una fine…

PIÙ ALTO DEL MARE di Francesca Melandri

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Un luogo – che l’autrice chiamerà sempre «l’Isola ».

Un’epoca – quella degli anni di piombo, fine anni Settanta.

Due personaggi – le cui strade non avrebbero mai dovuto incrociarsi.

Sono questi i protagonisti del romanzo « Più alto del mare » di Francesca Melandri, uscito nel 2012, finalista al premio Campiello.

L’isola è l’Asinara, a nord della Sardegna, ovvero l’isola nell’isola. Separata dall’isola madre da uno stretto agitato da forti correnti, l’Asinara ospitava in quel periodo un carcere di massima sicurezza dove venivano rinchiusi i detenuti più pericolosi, tra i quali brigatisti e mafiosi. «Se vuoi tenere qualcuno veramente separato del resto del mondo, non c’è muro più alto del mare».

Sulla motonave che collega la grande isola con la piccola, ultima tappa di un viaggio lungo e faticoso per chi viene a trovare parenti detenuti, c’è Paolo, un tempo padre e marito felice nonché stimato insegnante di filosofia, ora schiacciato dal dolore e dal senso di colpa. Il rumore delle onde gli fa tornare in mente le estati al mare con il figlio piccolo e la moglie tanto amata. Ora si reca ancora una volta a far visita al figlio brigatista, che ha ucciso tre uomini, colpevoli secondo lui di rappresentare lo «stato nemico», e che persino in prigione continua di sognare la rivoluzione. Ma non era il mite Paolo, padre e insegnante, a sostenere l’idea che la società era ingiusta e andava cambiata?

Insieme a Paolo sulla motonave diretta all’isola-carcere, Luisa, contadina dell’Italia del Nord. Solo a guardare le sue mani si capisce che è una donna abituata alle fatiche più pesanti. Un’eroina della quotidianità. Va a trovare il marito, pluriomicida recentemente trasferito all’Asinara dopo aver ucciso a mani nude una guardia carceraria. Lei l’aveva sentita sulla sua pelle la violenza del marito, tuttavia nei suoi ricordi le botte si mescolano all’immagine del giovane che l’aveva invitata a ballare. Nonostante la vita difficile di contadina senza marito, Luisa si ritiene « fortunata » – i figli ora sono cresciuti e danno una mano : « aveva pianto di gioia quando il più grande aveva preso la patente del trattore… quell’ affare rumoroso e puzzolente » che aveva dovuto guidare per tanti anni. A lei non è mai venuto in mente che il mondo andasse cambiato… Paolo la osserva in silenzio, capisce che Luisa non aveva mai visto il mare e si commuove davanti all’espressione meravigliata della donna. « La costa era già lontana, l’Isola era una sagoma sulla linea dell’orizzonte. In mezzo c’erano solo acqua e cielo. Lì, in quel trionfo dell’essenziale, Luisa teneva gli occhi… Della vicinanza dell’isola lei si accorse dopo un po’, non con lo sguardo ma con l’olfatto. La investì un’aria densa di profumi a lei sconosciuti, quasi speziati », lontani « dall’aroma di boschi tra cui era cresciuta » . L’isola « sapeva di salmastro, di fico, d’elicriso ».

L’unica cosa che accomuna Paolo e Luisa è il dolore che si tengono dentro.

Per via di un incidente i due perderanno la motonave che li doveva portare via e dovranno pernottare sull’isola. Sarà l’occasione di incontrare quello che si rivelerà il terzo protagonista del libro, una agente carcerario assegnato all’Isola una decina d’anni fa. All’inizio il giovanissimo Francesco guardava con nostalgia le luci dell’isola grande, scambiando per luci di una discoteca quelle che in realtà era di una raffineria. Poi con il passare del tempo e il lavoro con detenuti sempre più difficili, brigatisti, mafiosi, tossici, pedofili, è diventato taciturno e sempre più misterioso, al punto che la moglie, accorgendosi che qualcosa è cambiato nel suo uomo teme per lui… e per sé.

L’incontro tra i personaggi non cambierà in profondità la loro vita – la storia d’amore tra Paolo e Luisa sarà breve, ognuno seguirà il poprio destino segnato dal dolore. Eppure si sarà aperto uno spiraglio, per un momento si lasceranno andare, il dolore finalmente condiviso sembrerà meno acuto…

«Per scrivere questo libro, racconta la Melandri, ho raccolto le testimonianze di tante persone : ex guardie carcerarie, ex terroristi, ex detenuti di carceri di massima sicurezza, magistrati, parenti di vittime della violenza politica… tutti ne portano ancora dolorose, indelebili tracce ». La descrizione che l’autrice fa dell’Asinara senza mai nominarla è magistrale – sembra di sentirne il profumo, il rumore del mare, i colori, mentre il suo stile essenziale, delicato e sensibile nell’analisi psicologica dei personaggi, rende la lettura al contempo scorrevole e sconvolgente.

Il carcere è stato chiuso nel 1988. Dal 2002 l’intera isola è stata dichiarata Parco Nazionale dell’Asinara.

Libro consigliatissimo…

Diego Velazquez: Ritratto dell’Infanta Margherita d’Austria in vestito blu.

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L’Infanta Margherita Teresa era figlia del Re Felipe IV di Spagna e sua nipote e seconda sposa l’Arciduchessa Mariana d’Austria.

La pace di Westfalia, nell’1648, aveva messo fine alla guerra dei Trent’anni e aveva distanziato i due rami della famiglia Habsburgo: quella Austriaca e quella Spagnola. La discendenza della monarchia in Spagna non era assicurata e bisognava riconciliarle per garantire che il trono rimanesse in famiglia. Questo fatto ha reso la povera Infanta in una preziosa parte della politica di Stato.

Destinata sin da bambina a sposare suo zio l’Imperatore Leopoldo, sono stati inviati a Vienna diversi suoi ritratti perché l’imperatore potesse vedere l’evoluzione della ragazza. Questo di Velazquez ne è uno.

Alla fine, l’Infanta andò in sposa all’Imperatore all’età di quindici anni partì per Vienna dove ebbe quattro figli prima di morire di parto all’età di venticinque anni.

Il ritratto, apparentemente un quadro di Corte, rivela velatamente tutto il dramma di una povera ragazzina prigioniera come un uccellino in una gabbia d’oro. Il magnifico vestito blu con nastri dorati, magistralmente dipinto da Velazquez, occupa la quasi totalità della superficie della tela. Lo sfondo, in toni scuri, rinforza per contrasto la bianchezza del viso e delle mani della ragazza che appare quasi frontalmente guardando direttamente lo spettatore. La pelle bianca del volto e le guance colorate suggeriscono timidezza e magari timore. Nello sguardo inquisitivo e distante si può leggere l’estraneità logica di una ragazza che sicuramente vorrebbe essere in tutt’altro posto.

MARINA ABRAMOVIƇ

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Marina Abramoviƈ è una artista nata in Iugoslavia nel 1946 che si autodefinisce come una guerriera della Performance. Per esprimersi non utilizza parole né melodie e nemmeno pennelli: utilizza sé stessa. Il suo corpo è il suo strumento di libertà culturale e sessuale e con esso è riuscita a frantumare schemi e convenzioni sociali.

La sua era una famiglia disfunzionale. I suoi genitori erano entrambi militari e a casa c’era una disciplina rigorosissima. Ma non è questo il peggio: i suoi genitori si odiavano e sua madre odiava anche Marina perché la ragazzina portava, suo malgrado, il nome della donna con cui suo marito la tradiva. In conseguenza, durante la sua infanzia e adolescenza, Marina ha subito molteplici disturbi psicosomatici: non mangiava, aveva continue emorragie, è stata anche all’ospedale un anno intero.

Questo spiega probabilmente perché spesso nelle sue performance si automutila: si dà fuoco, si fustiga, si fa camminare addosso. Marina offre il suo corpo come spazio feribile anche dagli altri. Permette che il pubblico scelga tra darle piacere oppure ferirla. Lei intanto rimane ferma, senza reagire. È una maniaca dell’autocontrollo. Si fa attraversare dagli altri e diventa lo specchio di chi la guarda. Così tira fuori dagli altri tanto ciò che è bellissimo quanto ciò che è mostruoso. L’oggetto dell’esecuzione artistica non è tanto quello che fa ma anzitutto la reazione di quelli che l’osservano e intervengono.

Il suo grande amore nella vita è stato un artista olandese chiamato Ulai, con cui ha vissuto durante 12 anni. Quando lo conosce, fugge con lui ad Amsterdam e si ritrova per la prima volta in un paese dove c’è libertà. Ad un certo punto dice che imparare a gestire tutta la libertà a cui non era abituata è stato il momento più difficile per lei. Con Ulai organizza una serie di performance e i due mettono anche in scena la loro separazione: fanno una camminata di 90 giorni sulla muraglia cinese partendo dai due estremi opposti. Nel momento in cui si ritrovano, quindi a metà strada, si dicono addio e poi ognuno prende la direzione opposta. Nel 2010, dopo 20 anni senza essersi visti, Marina organizza una performance al Moma di New York intitolata The artist is present. Durante tre mesi è rimasta seduta 7 ore ogni giorno mentre il pubblico faceva la fila per guardarla negli occhi. Lei rimaneva sempre immobile, senza tradire nessuna espressione, finché un giorno Ulai è arrivato d’improvviso e per una volta lei non è riuscita a contenere l’emozione.

I robot rappresentano un’opportunità o un pericolo per la società?

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Attualmente il fatto della robotizzazione in espansione in tutto il mondo è diventato una prova concreta dell’inevitabilità dell’intervento dell’ AI (Intelligenza Artificiale) nella società e anche nella nostra vita privata. Ma che porta questa nuova tendenza? Qual è la sua opportunità per noi, gli umani?

Senza alcun dubbio si può chiaramente confermare che le macchine ci forniscono un sostegno quotidiano importante e che facilitano la nostra vita non solo occupandosi di lavori pesanti e noiosi, ma anche dei calcoli matematici con una grande precisione ed efficienza. Oggi i robot guidano i treni con la stessa destrezza con cui dirigono le navicelle spaziali, fanno interventi chirurgici ed ogni giorno si occupano anche della nostra difesa e sicurezza. Il che fa pensare che sono un appoggio indiscutibile e meraviglioso per noi. Tutto questo è vero, ma allo stesso tempo sorgono le questioni sulla parzialità dell’affermazione del beneficio assoluto dell’apparizione dei robot.

Malgrado tutta la stima che attribuiamo alle macchine, c´è qualche aspetto pericoloso da prendere in considerazione. Infatti, i rischi posti dalle nuove applicazioni dell’Intelligenza Artificiale (AI) sono ormai molteplici: dalla violazione della privacy alla discriminazione, dalla manipolazione mentale al rischio di danni fisici, psicologici o economici. Non si deve prendere una macchina come se fosse un essere vivente, con anima e cuore. In realtà, qualsiasi robot è solamente un prodotto, senza dubbio meraviglioso, dello sviluppo tecnologico, è un risultato del progresso dietro il quale si trova sempre una mente umana, quella che ha creato un algoritmo, un set, una serie di programmi che comandano un robot e che lo spingono a prendere una decisione.

Nonostante ciò, non tutto è così nero, se si presta speciale attenzione ai problemi dell’uso dei robot e se gli uomini prendono le appropriate precauzioni, potranno attenuare i difetti dell’AI ed evidenziare i suoi meriti per il bene ed il progresso di tutti, nella società e anche nella nostra vita privata. Ossia, per riassumere, le macchine, come qualsiasi cosa complessa, devono essere trattate con cura ed attenzione al fine di servire gli esseri umani, invece di distruggerli .

Su un’esposizione di Giorgio Morandi

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Alcuni mesi fa, il Centro Culturale La Pedrera di Barcellona ha offerto un’esposizione su una selezione di dipinti, disegni e incisioni del pittore bolognese Giorgio Morandi, provenienti da diversi musei e collezioni. Sono andato a vederla volentieri.

Innanzitutto, devo dire che Morandi mi ha stupito sempre per la sua capacità di rimanere fedele a sé stesso, ignorando qualsiasi moda o tendenza. Apparentemente era del tutto indifferente alle opinioni degli esperti o alle pressioni del mercato. Dipingeva sempre le stesse cose: oggetti inanimati su un fondo liscio. Tutto si presenta piccolo e modesto, i colori sono tenui. Sembra che non ci sia nessuna volontà di attirare l’attenzione. Tuttavia, la sua pittura ha qualcosa di attraente e misterioso.

In realtà, quello che interessava a Morandi è stato sempre l’essenza della pittura. Come la luce si riflette sulla superficie della materia e quindi come cambiano i colori, come interagiscono gli oggetti e come si dipinge l’aria tra di loro. Una ricerca difficile, anzi impossibile: ogni quadro è un’indagine più che una certezza. Per questo la reiterazione era necessaria. Come lo era anche per Cezanne, da cui è stato molto influenzato. Anche Cezanne ha dipinto dozzine di volte il Monte Sainte Victoire. E, come nelle pitture di Cezanne, lo stesso motivo è sempre diverso, perché in realtà le cose non le vediamo mai due volte nello stesso modo e tutto può cambiare in un istante, anche se solo è impercettibilmente. Inoltre, può cambiare l’animo del pittore e dunque la sua visione. Non ci sono due istanti uguali, insomma.

Morandi ha vissuto poco fuori dalla sua Bologna natale e ha dipinto pochissimo lontano dalla… la bottega che aveva lí. Il suo è stato un viaggio interiore alla ricerca dell’austerità, la purezza, l’armonia, la leggerezza e, infine, il silenzio.

Reddito di base sì o no? Quali potrebbero essere gli effetti (positivi e negativi) sulla società?

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Negli ultimi tempi si menziona sempre di più il concetto del reddito universale di base. Ogni giorno appare qualche notizia collegata ed ogni volta c’è un numero crescente di professionisti dell´economia che ne parlano. Se si parte dalla base dell´inevitabilità di prendere parte a questa polemica si può analizzare qualche argomento pro e contro.

A prima vista l’idea di soldi gratis, senza dare nulla in cambio, sembra attraente ed è vero che così la gente avrà più tempo disponibile per qualsiasi attività piacevole ed interessante che non sia lavorare in cambio di guadagnare i rispettivi stipendi. In questo modo si ridurrebbe la preoccupazione per il futuro incerto e così saranno coperti i bisogni di base. Ci si potrebbe dedicare al proprio benessere ed al progresso personale di ciascuno. Ossia, si può dire che il reddito universale di base contribuirebbe ad avere la libertà di prendere decisioni sul lavoro e non solamente da parte delle persone, ma anche da parte delle autorità, perché non sarebbe tenuta sotto osservazione l’attività occupazionale dei disoccupati ufficiali, quelli che ricevono un sussidio, per valutare il cambiamento delle loro condizioni. 

Nonostante ciò, ci sono gli altri fattori da considerare, tali come la crescita dell’inflazione causata dall’aumento dell´offerta di moneta in circolazione, il danno al prestigio del lavoro e dell’educazione, la possibile angoscia e crisi personale, causate dal cambio radicale della visione del mondo da parte di alcune persone. E tutto questo senza neanche parlare delle spese supplementari. 

Considerando tutti i pro e i contro, la decisione sembra difficile, ma tuttavia la sfida deve essere accetta. Semplicemente perché il progresso e l´aumento della robotizzazione nell’ambito dell’occupazione è inevitabile. Detto altrimenti, più velocemente si adottano le misure, meglio è.    

Il metodo Marie Kondo

L’ordine nella vita è molto necessario.

Si dice che tutto va meglio quando gli oggetti da cui siamo circondati sono nel posto adeguato, si dice anche che dobbiamo avere soltanto gli oggetti che servono, non di piú.

L’ordine aiuta ad avere la mente lucida e cosí è piú facile calibrare bene le strategie, le idee, etc.

La gente s’innervosisce quando abita in una casa dove l’ordine non c’è e se parliamo di un ufficio si lavora di meno, le persone dopo qualche ora al lavoro diventano piú stressate, nervose, di cattivo umore e la stanchezza dopo alcune ore non si può evitare. Non si può lavorare con tanto stress. Questa gente spesso ha voglia di andare via dal lavoro perchè non gli piace essere lí. È a disagio, quindi lavora di meno. Invece se gli oggetti sono tutti a posto, i muri sono bianchi e c’è la fortuna di aver luce naturale, si vive meglio e, per quanto riguarda il lavoro, si lavora in modo diverso. C’è meno stress.

Una stanza buia piena di oggetti che non sono né in ordine né necessari fa stancare qualsiasi lavoratore.

Questo è stato osservato da specialisti in questi temi.

Le persone che lavorano in un posto dove non c’è ordine sono spesso di cattivo umore. Per loro non è piacevole arrivare la mattina anche se hanno dormito bene.

A mio avviso sono meglio stanze con i muri bianchi, molta luce ed è molto importante che gli oggetti (soltanto quelli che sono veramente necessari) siano ben ordinati.

Scialla

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Il film “Scialla” la cui prima fu nel 2011 alla 68ª Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia è stata una gradevole rivelazione per quelli che sono appassionati di cinema italiano. Diretto da Francesco Bruni, uno sceneggiatore romano, il film apre una prospettiva peculiare sul tema delle relazioni tra due generazioni, piuttosto diverse a prima vista, ma comunque, con molte qualità e caratteristiche che tutte e due ammirano. I protagonisti sono padre e figlio che hanno appena iniziato a costruire un rapporto di fiducia tra di loro. Sembrano due mondi completamente differenti. Il padre è un professore che si dedica a dare lezioni private e nel frattempo scrive dei libri su persone famose, alcune di moralità ambigua, ed è un uomo che per la prima volta nella sua vita deve avere un rapporto con suo figlio.

Il figlio, da parte sua, è un ragazzo di quindici anni che viene cresciuto solo dalla madre, è un giovane molto intelligente che è cresciuto pensando che suo padre sia come minimo un capo della mafia. E questa è la ragione per la cui l’adolescente sente una forte attrazione per le attività criminali, il che poi lo porta a finire nei guai. Prima distanti, il padre ed il figlio man mano cominciano a conoscersi meglio ed addirittura a trovare l’affetto e la comprensione tra di loro. Il padre ammira il coraggio e l´audacia del ragazzo; il figlio, invece, trova interessante la perspicacia e l’acutezza mentale di suo padre, nonché il suo merito come un professore rispettato da tutti i suoi studenti.

Nonostante il trattamento dei temi difficili e complessi, il film è piacevole e pieno di senso dell’umorismo, il che lascia una buona impressione

Il processo

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Anzi tutto credo che questa serie è sia stata una buona scelta per il monografico. Ha ha atiratto il nostro interesse e nella discussione, ciascuno di noi ha avuto opinioni diverse sui personaggi e sullo svilupo della trama. Infatti mi ha incuriosito e mi é piaciuta.
I personaggi: come in tutte le serie di intrighi ci sono buoni e cattivi. I cattivi sono peggiorati ogni puntatta. Per quello che riguarda i buoni non sempre sono stati bravi, hanno fatto e avuto comportamenti discutibili.

Quali cose mi hanno sorpreso:

  • Il carattere serio e introverso di Elena Guerra e anche il rapporto con suo padre
  • L’atteggiamento comprensivo della madre adottiva di Angelica, con Elena quando quest’ultima le dice di essere la madre biologica e dell’obligo di lasciare il processo
  • La dura risposta del marito di Elena, Giovani, quando gli raccconta di essere la madre di Angelica, è vero che la relazione non andava per niente bene
  • Di Ruggero Barone, Il buon rapporto e l’orgoglio che prova per i suoi genitori e la rabbia per essere stato ingannato. Ha più scrupoli di quanto pensi
  • La gravidanza di Elena Guerra
  • Non mi ha sorpreso la complicità e le buone vibrazioni che si sono instaurate alla fine tra Elena e Ruggero. Finiranno con un buon rapporto….fuori dal tribunale